La “pizza figliata”: il dolce solstiziale della rigenerazione del tempo e dell’eterno ritorno. Una proposta etimologica inedita

21.12.2021

Una sottilissima sfoglia all'uovo cosparsa di noci e miele, arrotolata e attorcigliata: è la "pizza figliata", o anche "pizza cu' 'a noce" o "turcinieglio", un antico e squisito dolce contadino legato al periodo del solstizio invernale e della fine dell'anno. Le sue origini restano remote e misteriose nonostante più volte si sia cercato di individuarle. Con lievi differenze di forma e contenuto da zona a zona, la "pizza figliata" viene preparata nella Campania settentrionale, e in modo particolare dalla zona a nord di Capua (Pignataro, Camigliano, Pastorano) fino al versante nord del massiccio di Roccamonfina, come ad esempio a Galluccio dove è chiamato "ru serpe" ("serpente" o "serpentone"): area - quest'ultima - in cui la tradizione pare sia più recente rispetto a quella calena. La vera patria resta indiscutibilmente Partignano, rione di Pignataro Maggiore, in cui la ricetta e le tecniche di produzione tradizionali sono rimaste ben vive all'interno della cultura popolare. A Partignano in realtà la "pizza figliata" si prepara soprattutto in onore della festa dedicata al patrono, San Vito, che viene celebrata a settembre. Si tratta di un dolce molto semplice, contadino, antico, invernale, mediterraneo e proprio queste coordinate complesse e remote lo connettono a una specifica simbologia di carattere sacro legata ai cicli terrestri e cosmici, in particolare alla rigenerazione del tempo, alla morte e rinascita dell'anno, all'eterno ritorno dell'uguale.

La ricetta

Il segreto del gusto antico della "pizza figliata" risiede sia nella semplicità degli ingredienti sia - in modo particolare - in quello che può essere definito il rituale di preparazione. Nonostante non si abbiano fonti certe che possano attestarne la provenienza e l'antichità, il preparato presenta alcune caratteristiche che forniscono la possibilità di decifrarne le prerogative principali. La "pizza figliata", oltre ad essere un dolce contadino, antico e popolare, è soprattutto un dolce mediterraneo: pasta matta, miele, frutta secca, bucce di agrumi sono la cifra costitutiva di svariati dolciumi delle maggiori tradizioni del mondo mediterraneo. Le culture dei paesi delle tre grandi tradizioni religiose monoteiste (ebraismo, cristianesimo e islam) contemplano la preparazione di dolci accomunati dagli stessi ingredienti e da similari metodi di produzione. Per meglio inquadrare il quadro culturale di riferimento sarebbe appropriato affermare che la "pizza figliata" incarna la specifica espressione locale - e storicamente sedimentatasi - di una tradizione alimentare che probabilmente affonda le radici alle origini delle antiche società mediterranee.

La pasta matta da cui viene ricavata la sfoglia è costituita da farina, uova, olio di oliva, zucchero e - tranne in poche varianti - vino bianco. La pasta lavorata a mano e lasciata riposare viene infine stesa fino a renderla una ellisse di sfoglia molto sottile; su tale sfoglia viene collocato uno strato di noci pestate e ridotte in grana grossolana, zucchero, scorzette di limone e di mandarini (in alcune varianti frutta candita) e, chiaramente, il miele. La sfoglia, così trattata, viene infine arrotolata su se stessa e quindi leggermente attorcigliata fino a creare le due forme circolari caratteristiche: quella a spirale e quella a "mezza luna" aperta a un lato. A questo punto le "pizze" vengono adagiate su teglie lubrificate con l'olio di oliva pronte per la cottura, che in tanti cortili di Partignano avviene ancora nei forni a legna, spesso riattivati esclusivamente per l'occasione. A processo di cottura ultimato il dolce viene spennellato con il miele diverse volte fino a raggiungere la maturazione. Si tratta della ricetta e della tecnica tramandata a Pignataro ma, come già sottolineato, è possibile trovare varianti con impasti diversi e che prevedono l'utilizzo - nel ripieno - di fichi secchi, frutta candita, cioccolato.

Qualcosa di molto simile alla "pizza figliata" - proprio per rimarcarne l'appartenenza a una "famiglia" mediterranea - è riscontrabile nella tradizione ebraica toscana del '600, in alcuni dolci della tradizione arabo-mediterranea come i briwats e i makruda e - in Italia - in quella arabo-siciliana. Come sia arrivata a Pignataro - e in tutta la zona in cui si prepara - resta in ogni caso un mistero. La sua origine può risiedere nei costumi degli antichi italici che abitarono la zona e che fondarono la vicina Cales; forse il dolce viene da oriente, al seguito dei saraceni che saccheggiarono l'area e realizzarono un ribat sui pendii di Rocchetta; o da nord, insieme ai longobardi che sull'antica arce calena edificarono il loro castrum. O anche insieme agli ebrei che a Capua vantavano un'antica comunità: a Pignataro già nel '500 si registra il cognome "de Sionne" (Di Sion) che indicava l'origine ebraica della famiglia (Martone, Storia di Pignataro in età moderna - Il Cinquecento, p. 28). Nella realtà in tutte le culture e i periodi storici elencati è possibile trovare qualcosa di assimilabile al dolce campano; e la Campania è stata da sempre centro di migrazioni e conquiste: fattore che complica non poco la possibilità di risalire all'origine storica e culturale precisa del dolce.

Etimologia

Anche il nome - al pari delle origini - resta un mistero. Sono state proposte diverse interpretazioni etimologiche, alcune molto fantasiose, ognuna delle quali ha in ogni caso il merito di descrivere caratteristiche specifiche del preparato. In particolare il nome "pizza figliata" viene fatto derivare dal fenomeno delle crepe che si aprono sulla superficie della ciambella "matura" facendo uscire fuori il miele e le noci, a quel punto la pizza si dice "figliata"; o anche da una ipotizzata relazione con il ciclo della Novenia natalizia e quindi con la nascita di Gesù Cristo. Ma spesso il significato delle cose non va ricercato in lontane - e complicate - congetture, il più delle volte è il nome stesso che rivela l'anima dell'oggetto a cui si riferisce. A tale proposito sembra utile fare riferimento al modo in cui il dolce viene chiamato nella vicina Camigliano dove insieme a "pizza figliata" e "pizza cu' 'a noce" sopravvive anche la dicitura "turcinieglio" che rimanda etimologicamente in modo inequivocabile al torcere, all'attorcigliare.

Richiamo che - a ben guardare - potrebbe risiedere anche nel nome "pizza figliata". Dove il "figliata" non va inteso come un riferimento all'avere o al mettere al mondo figli, ma come al risultato linguistico della metamorfosi in ambito dialettale di un originario "filàta", ovvero "attorcigliata", poi divenuto filiàta, quindi l'attuale "figliata". Ed è proprio ciò che avviene durante la preparazione del dolce: la "pizza" di pasta matta con noci e miele viene arrotolata su se stessa e, in contemporanea, attorcigliata (filàta) ai bordi per impedire al miele di colare all'esterno; il fagotto di pasta ripiena così ottenuto infine è di nuovo attorcigliato su se stesso fino a conferirgli le caratteristiche forme circolari a spirale o a ciambella aperta. Il verbo filare (antico spagnolo filar, spagnolo moderno hilar, francese filer, portoghese fiar) deriva dal latino filo che significa "torcere [...] e ridurre in filo" (Vocabolario Etimologico Pianigiani). Il nome "pizza figliata" indica - se letto sotto questa prospettiva - la sua essenza stessa di pasta schiacciata (la pizza), arrotolata e attorcigliata (filàta): è il nome che parla a voce chiara del suo significato. Un ulteriore richiamo etimologico - per completezza - potrebbe provenire anche dal greco fùllo, ovvero "foglia", da cui deriva in ambito culinario il nome della pasta fillo: in tale caso il significato primario non rimanda però al caratteristico attorcigliare (filàre) che contraddistingue la preparazione della 'pizza figliata" ma alla sottigliezza della sfoglia.

Restano affascinanti le suggestioni etimologiche fino ad oggi avanzate perché - seppure a volte fuorvianti - hanno il merito di agire lo sforzo di decifrazione dello spirito intimo delle cose. Con tutta probabilità è vero anche in questo caso che la decifrazione dello spirito intimo e originario della "pizza figliata" passa attraverso il nome, o meglio attraverso uno dei nomi con cui viene chiamato: serpente o serpentone.

"Ru serpe" di Galluccio (Foto di A. De Luca)
"Ru serpe" di Galluccio (Foto di A. De Luca)

Dalla forma al simbolo: l'Uroboro e la spirale

La civiltà contadina europea medievale e moderna è stata a lungo custode di una concezione del tempo a cavallo tra quella lineare, cristiana ed escatologica, e quella circolare arcaica legata ai cicli infiniti della natura, del pianeta e del cosmo. Il contesto temporale in cui avviene la preparazione della 'pizza figliata" rappresenta lo snodo centrale del ciclo dell'anno: con il solstizio invernale l'astro solare termina la sua caduta all'orizzonte e ricomincia un nuovo ciclo di risalita. Il periodo del solstizio è per tale motivo salutato in numerose culture dai rituali legati al fuoco: gli esseri umani, aiutati dal sole estivo nella pratica agricola, utilizzano i fuochi per stimolare, coadiuvare e soprattutto sacralizzare la rigenerazione del tempo e l'inizio di un nuovo ciclo dell'astro. La "pizza figliata" è un cibo solstiziale non solo per il periodo in cui viene preparata ma anche per il simbolismo che le sue forme circolari trasmettono.

Le forme a "serpente" e a spirale che caratterizzano la "pizza figliata" incarnano - da millenni - il simbolismo della ciclicità e della rigenerazione del tempo. Nelle zone in cui il dolce è soprannominato "serpente" (o "serpentone") su una delle due estremità della ciambella vengono rappresentati gli occhi e la lingua del rettile che sfiorano la parte opposta, quella della coda, fino a volte a morderla (come in foto). Questa specifica rappresentazione è frutto di una concezione simbolica del serpente che è antecedente alla sua negativizzazione e demonizzazione operata dal cristianesimo: elemento che può suggerire una origine molto remota del dolce. Il ciclico cambio della pelle, la sinuosità, il legame con le acque, la collocazione in spazi ctoni, hanno fatto del rettile un potente simbolo di rigenerazione e rinascita, una manifestazione degli infiniti cicli della natura. Nel mito L'Uroboro è il serpente cosmico che ingoia la propria coda e abbraccia l'universo. Per lo storico delle religioni Mircea Eliade rappresenta "un'epifania della luna" (Trattato di storia delle religioni, p. 171): al pari della luna che ciclicamente muore e si rinnova, così la perdita della pelle del serpente diventa simbolo di morte e resurrezione. Tale innato significato rigenerativo del serpente accomuna molte culture: nell'Epopea di Gilgamesh possiede la pianta dell'immortalità, nelle fiabe greche di Glauco e Tilone i serpenti restituiscono la vita ai defunti grazie a una pianta che solo essi conoscono. La più antica raffigurazione del "serpente infinito" è stata rinvenuta in un papiro funerario egizio The Enigmatic Book of the Netherworld ritrovato nella tomba del Faraone Tutankhamon della XVIII dinastia. Nel papiro sono rappresentati due serpenti che si mordono la coda e che circondano la testa e i piedi di una mummia: entrambi sono manifestazioni della divinità Mehen, il benefico dio-serpente che protegge la barca del dio-sole Ra e il cui nome significa "colui che è arrotolato" (Erik Hornung, The Ancient Egyptian Books of the Afterlife). Un tipo di simbolismo cosmico riscontrabile anche nel papiro di Dama-Heroub, della XXI dinastia, in cui è rappresentato Horus fanciullo (il sole nascente), iscritto nel Disco Solare mentre è sostenuto dal leone Akhet che simbolizza l'orizzonte dove il sole sorge e tramonta. L'intero gruppo è circondato - anche in questo caso - dal dio-serpente Mehen nella forma di Uroboro.

Horus bambino, il Sole nascente circondato dal serpente Mehen nel Papiro di Dama-Heroub
Horus bambino, il Sole nascente circondato dal serpente Mehen nel Papiro di Dama-Heroub

Si tratta di una simbologia molto diffusa, dallo gnosticismo, alla tradizione germanica, all'alchimia: i casi egizi elencati sono utili perché certificano sia la remota e specifica connotazione mediterranea del simbolo, sia perché ne collocano in modo esplicito il legame con il disco solare e con i cicli terrestri e cosmici.

La forma del "serpente" campano sembra immettersi in tale simbolismo solare e solstiziale anche per il caratteristico colore dorato che gli conferisce il miele: appare in questo modo simile a un Uroboro d'oro. Dove il serpente è simbolo della rigenerazione e della ciclicità del tempo e il colore aureo un attributo spiccatamente solare legato al solstizio d'inverno. La prerogativa principale del dolce è infatti quella di essere un cibo solstiziale. Nei vari centri dove viene preparato si registra uno scarto cronologico per quel che riguarda il giorno esatto per dare il via alle operazioni: Immacolata Concezione, Santa Lucia, giorni della "Novenia" o proprio a Natale (per consumare il dolce fino alla fine dell'anno). Ciò che accomuna le varie differenze locali è però la preparazione del dolce a cavallo del solstizio d'inverno, in quelli che vengono chiamati i "Giorni della bruma". Il termine bruma che nella sua accezione più diffusa ha il significato di "nebbione" o "brina", deriva dal latino brúma che a sua volta viene da *brevuma/*breuma frutto della contrazione di *brevissuma ovvero brevissimo, con dies (giorno) sottinteso per indicare il giorno più breve dell'anno (Pianigiani, op. cit.). Il periodo chiamato i "Giorni della Bruma" è quello collegato al Solstizio d'Inverno (che in alcuni luoghi è indicato proprio con il termine Bruma) e va dal 20 novembre al 20 gennaio: la stagione dei giorni più brevi, il cuore più profondo dell'inverno.

Un arco temporale in cui l'umanità allo stesso tempo contemplava il declino drammatico della luce e partecipava all'eterno suo rinnovarsi. È in tale contesto, intimamente sacro, che la simbologia del serpente va letta e collocata quale epifania dell'eterno ritorno del ciclo della natura. E a confermare tale simbolismo è l'altra forma con cui viene preparata la "pizza figliata", ovvero quella a spirale: allo stesso modo in cui il nome sembra suggerire una specifica caratteristica del dolce, così la sua morfologia sembra parlare del suo significato sacro e simbolico in modo inequivocabile.

Antichi petroglifi a spirale
Antichi petroglifi a spirale

"I motivi a spirale appaiono nel simbolismo di tutto il mondo: nella religione, nell'arte, nei sogni, nelle tradizioni popolari e nella mitologia. [...] Il suo potere simbolico sta nell'evocazione di un percorso archetipico di crescita, trasformazione e viaggio psicologico o spirituale. [...] La spirale è il percorso che conduce alla risoluzione di un conflitto. Con il suo avanzare armonioso e naturale, consente alla trasformazione di proseguire nel suo cammino in modo equilibrato. In natura, queste spirali sono evocative del viaggio mitico, della rigenerazione e della rinascita [...]. Rispecchiando il moto del vento e di alcune galassie, le spirali tracciano non solo il viaggio intrapreso da sciamani, geni e spiriti, ma anche il percorso psicologico in generale, come se lo sviluppo interiore ruotasse ciclicamente attorno allo stesso punto, ma a un livello diverso. Le spirali che si estendono all'infinito [...] tracciano il percorso di ascesa e discesa tra Cielo e Terra. Le divinità e gli umani comunicano tra loro attraverso le spirali. È il modo sacro in cui avvengono il comandamento e la preghiera: la voce a spirale di Dio e l'invocazione sacra a Dio. Numerose divinità parlano attraverso vortici d'aria spiraliformi o vorticose colonne di polvere, fumo e fuoco. [La spirale] Evoca l'occhio della sapienza che osserva tutto, senza rimanere mai intrappolato nella turbolenza." (Il libro dei simboli - Riflessioni sulle immagini archetipiche, Taschen, pp. 719-720)

Tale specifico corollario di significati è connesso in modo strutturale al periodo del solstizio invernale in cui avviene la rigenerazione infinita e circolare del tempo: la morte dell'anno vecchio e la nascita di quello nuovo. Evento rappresentato attraverso un simbolismo arcaico e complesso che si materializza morfologicamente anche nelle forme della "pizza figliata" e che è possibile disvelare esclusivamente attraverso un consapevole esercizio di decostruzione degli stereotipi che per decenni hanno influenzato la comprensione reale della civiltà contadina meridionale. Le donne e gli uomini che per anni hanno tramandato e vivificato la tradizione sono custodi - spesso inconsapevoli - di tale arcaico e complesso sistema di valori. A tale proposito Mircea Eliade appare illuminante.

"[...] Queste pratiche considerate in se stesse ci possono rivelare il mondo dal quale sono state tramandate ed è indifferente se coloro che le ripetono hanno ancora o non hanno più accesso teoretico ad esso. L'universo mentale dei mondi arcaici è giunto fino ai giorni nostri conservato non in modo dialettico nelle credenze esplicite degli uomini, bensì conservato in miti, simboli, costumi che, per quante degradazioni abbiano sofferto, conservano in modo trasparente i loro significati originari." (I riti del costruire, Jaca book, p. 15)

"Pizze figliate" a spirale
"Pizze figliate" a spirale

In tale modo è possibile chiudere il cerchio - è proprio il caso di dire - anche su quella che può essere enucleata come l'origine sacra e solstiziale della "pizza figliata", al contempo simbolo e costume di tale periodo di transizione cosmica. Al simbolismo del serpente e della spirale - che ne forgiano le forme - è simmetrico quello espresso dagli ingredienti principali del ripieno: miele e noci. Dal punto di vista strettamente alimentare le noci vanno considerate come il vero ingrediente caratteristico: il dolce è chiamato anche "pizza cu' 'a noce" o "zeppola cu' 'a noce". Il motivo va ricercato nell'esigenza di utilizzare - e di non sprecare - anche le ultime noci dell'annata utilizzandole insieme al miele che le avrebbe conservate più a lungo. Sul piano simbolico è il miele - in particolare - che appare quale una vera e propria epifania dell'interazione cosmica tra Sole e pianeta terra, anche a causa del suo colore che è quello del simbolo solare per eccellenza: l'oro.

"La produzione del miele è un'attività di creazione, un "processo alchemico di riscaldamento" che ha inizio a un certo punto dell'interazione tra Sole e fiore, quando si formano il nettare e il polline. [...] Per gli antichi egizi, tra i primi ad allevare le api, questi insetti trasformavano i raggi del Sole in dolcezza dorata." (Il libro dei simboli, p. 228)

In ambito culturale indoeuropeo, le saghe delle popolazioni di origine celtica narrano che ai tempi del mitico sovrano dell'età dell'oro Cormac vi era abbondanza di miele: "andando in giro si poteva leccare dappertutto miele con il dito; si dice infatti che a causa della giustizia di Cormac il miele pioveva dal cielo" (In M. Riemschneider, Miti pagani e miti cristiani, cit., pp. 76-77). Restando in area celtica, la notte prima del solstizio d'inverno era chiamata Notte delle Madri, festa legata agli antichi culti gallo-romani delle Matres Matrones/Disir: Beda il Venerabile (673-735) ne parla come di una usanza molto antica ancora viva ai suoi tempi. La parte privata e domestica delle celebrazioni prevedeva una "cena dei morti" con cibi rituali lasciati di notte sul tavolo, insieme a una sedia vuota, in onore degli antenati. Al mattino seguente i cibi venivano distribuiti agli animali di casa e le bevande servivano per irrorare le radici delle piante degli orti e dei giardini a scopo propiziatorio. Tra le offerte in cibo preparate per l'occasione vi era una torta di miele che veniva consumata da tutta la famiglia per propiziare la prosperità del nuovo ciclo.

I popoli dell'India indicano il miele con il termine madhu e lo identificano con Atman, lo spirito universale. Il quinto brâhmana della Brihad-âranyaka upanishad tratta del miele come di un alimento universale che irrora e pervade il cosmo e nutre di sé l'uomo così che, chi gusta il madhu celeste, avrà realizzata la propria identità con lo Spirito. L'arcana dottrina del miele fu rivelata da un saggio ai gemelli divini Ashvin che sfuggirono con uno stratagemma all'ira di Indra sotto la tutela del quale era posto il miele.

Dea-ape (Rodi)
Dea-ape (Rodi)

Le sacerdotesse di Eleusi e di Efeso, nell'antica Grecia, venivano chiamate "api" perchè rivelavano ai profani il "miele" della parola divina. Nell'ambito dei Misteri Eleusini il miele era offerto agli iniziati di grado superiore come segno di sapienza e di rinascita nel divino. Il miele è inoltre il cibo di Kronos - il Saturno degli italici - che se ne inebria nella sua dimora posta agli estremi confini della terra. Il periodo del solstizio d'inverno è quello in cui gli antichi romani festeggiavano i Saturnali, la festa in onore del dio Saturno. Cicerone tramanda la leggenda secondo cui quando a Preneste furono ritrovate le tavolette con i segni arcaici dell'alfabeto per la divinazione, un grande albero di ulivo che sorgeva presso la grotta dove furono rinvenute si aprì nel mezzo facendo fuoriuscire del miele.

È pero nel culto misterico legato al dio solare Mithra - in cui i miele era usato nelle purificazioni e come cibo rituale - che la prerogativa solare dell'alimento appare in modo chiaro. Porfirio tramanda come fosse versato sulle mani degli iniziati che dovevano leccarlo per purificare la lingua da ogni errore. Simbologia che, infine, transita anche all'interno della tradizione cristiana: il Battista - solitamente legato al solstizio d'estate e quindi al Sole - nel corso del suo peregrinare nel deserto ebbe il miele come nutrimento (per la simbologia sacra del miele si veda M. Polia, «FUROR» Guerra, poesia e profezia, ed. Il Cerchio-Il Corallo, pp. 28-31).

Collegamento tra i due solstizi che è possibile riscontrare anche nell'altro ingrediente principale del ripieno della "pizza figliata": la noce, ulteriore elemento carico di una valenza simbolica molto antica e complessa. Proprio in area campana la pianta è al centro delle leggende folkloriche nate intorno al noce di Benevento, luogo di convegno delle janare durante il grande sabba che si svolgeva durante la notte di San Giovanni (il 24 giugno), data prossima al solstizio estivo.

"Sant'Agostino, evoca dalla noce il simbolo del Cristo stesso, spiegando che l'involucro indica la carne del Cristo che ha provato l'amarezza della Passione; il seme la dolce interiorità della divinità che elargisce il nutrimento e rende possibile la luce per mezzo del suo olio; il guscio il legno della Croce" (A. Cattabiani, Florario: Miti, leggende e simboli di fiori e piante, p. 835-836)

Agostino paragona il seme della noce alla divinità che elargisce nutrimento e che, soprattutto, fornisce la luce per mezzo dell'olio che da esso si ricava. Nutrimento - quindi prosperità e benessere - e luce sono due degli attributi simbolici principali degli istituti sacri e propiziatori legati al solstizio invernale.

"Il frutto di questo albero è simbolo di Rigenerazione, come conferma una leggenda slava del diluvio universale dove si narra che le persone virtuose, destinate a ripopolare il mondo, si salvarono grazie a un guscio di noce. Per questo motivo una volta in Belgio, il 29 settembre, festa di san Michele Arcangelo, le ragazze per sapere se si sarebbero sposate presto interrogavano le noci" (Ivi, p. 831; per un approfondimento si rimanda al testo)

Conclusioni

La "pizza figliata", nonostante resti arduo decifrarne le origini, va collocata senza dubbio nell'ambito dei cibi rituali legati al solstizio d'inverno; e in particolare modo deve inserirsi in specifiche coordinate (per ingredienti, tecniche di preparazione e simbologia) di carattere mediterraneo più che meramente meridionale e/o locale. Un dolce legato al tempo sacro del solstizio il cui nome nasconde l'anima stessa della tecnica di preparazione e la cui morfologia rimanda in modo chiaro alla spiraliforme rigenerazione del tempo e all'eterno ritorno dei cicli terrestri e uranici. Non soltanto un dolce ma un pezzo della cultura arcaica tenacemente vivo e capace di attrarre e di rinnovare di continuo la sua essenza. Il rituale di preparazione della "pizza figliata" è sopra ogni altra cosa espressione di senso di appartenenza: è famiglia, è comunità. La rottura dei gherigli delle noci, la lavorazione della pasta, i fuochisti impegnati nell'accensione dei forni, l'attesa e la cura che portano le "pizze" a maturazione, rappresentano un insieme corale di gesti invariato da secoli.

La gustosa "pizza figliata" ha un sapore antico perché la sua essenza più intima e sacrale proviene dagli strati più remoti della cultura tradizionale delle zone dove ancora viene preparata. Da epoche in cui gli avi, non oberati dalle distrazioni della modernità, guardavano ancora con attenzione al moto del cielo e degli astri per carpirne i segreti e per trasferirli nelle opere umane attraverso i gesti delle loro mani. Tale commistione di gesti arcaici e contemporaneità testimonia una straordinaria pagina di tradizione realmente viva e - soprattutto - vissuta consapevolmente. Quando nel 1950 l'antropologo Ernesto de Martino nelle sue Note lucane, frutto di un viaggio tra i contadini poveri della Rabata di Tricarico, raccontava dei canti di quelle genti, restò colpito da alcune strofe del cosiddetto Canto della Rabata e ne produsse pagine appassionate.

"[...] Altre strofe esprimono la orgogliosa coscienza che i contadini della Rabata, considerati zulù e beduini, quasi bestie che mangiano e dormono insieme alle bestie, sono in realtà la "giovinezza del mondo": Nuie simme a' mamma d'a' bellezza [...]." (in E. de Martino, Oltre Eboli - Tre saggi, p. 69)

Le mani che arrotolano la pasta, che plasmano le forme e che fanno colare il miele sulla "pizza figliata" sono frutto ed estensione viva della medesima giovinezza del mondo: a Partignano la "mamma d'a' bellezza" è "figliata".

Massimiliano Palmesano


Ringrazio Giovanni Giordano e - tramite lui - L'Associazione Culturale Arianova e il Comitato festeggiamenti San Vito M. e N.S. del S. Cuore di Gesù, in quanto animatori del laboratorio sulla "pizza figliata" che si tiene regolarmente ogni anno a Partignano nella prima metà di dicembre: un'occasione in cui è possibile ammirare le fasi del rituale di preparazione dalle vive mani delle e dei custodi della tradizione, qui immortalati grazie agli scatti di Rossella Sorvillo (13 dicembre 2021). 

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