Le janare di Carife: un mito cereario e l’ombra estatica di Mefite. Note di folklore irpino

13.12.2020

Argumenta

A Carife, in Irpinia, la tradizione orale contadina tramanda un racconto tanto anomalo quanto affascinante. Una fiaba rurale in cui janare (streghe) e lupi mannari non vengono rappresentati - come vuole lo stereotipo - quali incarnazioni di forze oscure e negative, ma come entità magiche e benevole che grazie a una danza fatata svelano agli esseri umani il segreto per l'abbondanza delle messi. Tra le pieghe del racconto folklorico vengono a galla antichi miti cereari e le figure delle dee Cerere e Mefite.

Oltre lo stereotipo stregonesco

Protagonisti del racconto sono - insieme a un contadino - janare e lupi mannari in una veste per molti aspetti inconsueta, una narrazione che all'interno della vulgata sulle streghe della tradizione campana può essere considerata, parafrasando Carlo Ginzburg, una vera e propria anomalia. Il racconto, che è stato raccolto dalla voce di una narratrice di Carife in provincia di Avellino, da una prima - e quindi passibile di ulteriori verifiche - analisi delle fonti bibliografiche e degli studi editi sull'argomento sembra essere in questa sede per la prima volta trascritto, analizzato ed oggetto di studio. La particolarità della leggenda risiede nella sua anomalia formale e contenutistica rispetto agli schemi canonici dei racconti di streghe nella tradizione campana. Le janare, stando al consolidato schema che si è stratificato intorno alla loro figura, sono considerate le streghe del beneventano e più in generale di una consistente area del sud Italia. In quasi tutti i racconti vengono dipinte come donne dedite alle più oscure pratiche quali rapimenti di bambini, danni ai raccolti e agli animali nelle stalle, malocchio, fatture mortali. Uno stereotipo oscuro venutosi a creare, come accaduto del resto in gran parte d'Europa nei confronti delle cosiddette streghe, grazie all'opera di chierici e inquisitori che incasellarono in una cornice diabolica e negativa gli antichi culti e le pratiche magiche rurali di cui queste donne erano custodi. Nello specifico campano questo lavoro di demonizzazione e di costruzione della leggenda negativa delle streghe di Benevento ha esponenti illustri quali il santo vescovo Barbato (VII sec.), san Bernardino da Siena (XIV-XV sec.) e il protomedico ebreo Pietro Piperno (XVII sec.). Quest'ultimo nel 1639 scrisse il De nuce maga beneventana (Della superstiziosa noce di Benevento) un compendio in cui venivano mescolati insieme una serie indistinta di elementi diversi quali racconti popolari, riferimenti agiografici e storici, superstizioni, pulsioni misogine, al fine di evidenziare una presunta inclinazione diabolica delle streghe, elemento utile alla loro persecuzione. Le teorie espresse in questo Malleus Maleficarum in salsa sannita vengono spesso eradicate dall'orizzonte che è loro proprio - quello cioè leggendario e affabulatorio - per assurgere a fondamento di presunti paradigmi teoretico-esplicativi intorno alla tradizione delle janare: i risultati spesso sono disastrosi.

Va considerato che in contesti in cui non esistevano medici e ospedali, quali erano (e spesso sono ancora) le campagne e i villaggi montani del sud, l'opera di queste donne ha rappresentato per secoli l'unica forma di assistenza e cura per migliaia di uomini e donne. Le janare erano soprattutto dominae herbarum, esperte erboriste, guaritrici contadine, levatrici. Appare chiaro che le tesi del protomedico Piperno altro non rappresentavano che il pretesto teoretico su cui potesse fondarsi e giustificarsi la persecuzione delle janare. Una emanazione, all'interno del contesto specifico campano, di un più grande scontro che in tutta Europa si era infiammato da circa due secoli tra la cultura delle classi dominanti, cioè degli umanisti e della recente disciplina medica, e la cultura delle classi subalterne, ovvero delle guaritrici e dei guaritori contadini. Quella che è conosciuta come 'Caccia alle streghe' può essere considerata come il primo grande scontro nell'Europa moderna tra cultura delle élites e cultura degli strati sociali rurali e subalterni.

Se le janare sono solitamente dipinte con tratti oscuri, la fama dei licantropi, altri protagonisti del racconto, non sembra essere dissimile per negatività rispetto a quella delle streghe. Essi sono da sempre associati a pulsioni bestiali, a forze selvagge e incontrollabili, a una furia predatoria e imprevedibile.

Queste premesse sono utili per poter meglio inquadrare la favola di Carife nella sua singolarità; per poter carpire al meglio la ricchezza celata nel racconto, i cui topoi non sembrano affatto pescare nel torbido dello stereotipo stregonesco ma anzi alludono costantemente a un sostrato antico e mitico. Una narrazione che disvela elementi che danno la possibilità di superare il quadro costantemente (e superficialmente) riproposto intorno alle janare. Questa leggenda sulle streghe irpine, proprio grazie alla sua anomalia, sia nell'intreccio sia nei temi, lascia il campo aperto a suggestioni ben più profonde rispetto agli oscuri racconti sulle janare e conduce al cospetto della fiaba magica all'interno di un orizzonte mitico.

Il racconto: shanare (streghe) e pempenali (lupi mannari)

Un giorno un contadino stava portando, insieme al suo mulo, un sacco con del grano al mulino per ricavarne della farina. Mentre camminava nel profondo del bosco avvertì dei suoni e, scrutando attraverso gli alberi, vide in lontananza un cerchio di uomini e donne che danzavano accompagnati dalla musica. Avvicinandosi i suoni divennero sempre più nitidi e la scena apparve ai suoi occhi con più chiarezza: un cerchio di shanare (streghe) e pempenali (licantropi) che danzavano e si contorcevano in modo strano, i loro volti erano distorti in terribili smorfie. L'uomo, spaventato, senza farsi notare ben nascosto dagli alberi, cominciò a interrogarsi se tornare indietro e rinunciare alla farina o se proseguire verso il mulino attraversando il cerchio delle streghe e dei lupi mannari. All'improvviso vinse le paure e saltando fuori dalla selva esclamò 'accriscimme stu ballo' (accresciamo questo ballo) dirigendosi verso la radura dove janare e lupi mannari continuavano la loro danza rituale. Appena giunto nei pressi del cerchio, la janara più anziana, una sorta di 'regina delle janare', si separò dal gruppo e rivolgendosi al contadino disse: "Visto che sei stato così coraggioso da accrescere il ballo, io ti donerò il segreto per accrescere all'infinito quello che hai nel tuo sacco". Il contadino dopo aver preso parte alla danza, incredulo, si rimise in cammino verso il mulino; appena arrivato cominciò a prendere grosse misure di grano e diede inizio alla macina. Ben presto si accorse che il livello del grano all'interno del sacco non diminuiva mai, continuò per ore ma i sacchi di farina aumentavano di numero e quello di grano restava sempre pieno. Da quel giorno al contadino non mancarono mai farina, pane, pasta: la 'regina delle janare' gli aveva davvero donato il segreto per accedere all'infinita abbondanza della natura.


Dalla lingua del racconto alla lingua che racconta

Il potere evocativo della narrazione è rafforzato da una serie di elementi di carattere linguistico-dialettale che impreziosiscono il racconto donandogli connotati favolistici e mitici. Quando il contadino diventa conscio della scena a cui sta assistendo, l'espressione dialettale che viene usata per descrivere il consesso di streghe e licantropi è 'nu circiu de shanare e pempenali' ovvero 'un cerchio di janare e lupi mannari'. Il riferimento al cerchio è un elemento che non si trova con facilità nei racconti folklorici; in essi spesso si parla dei sabba delle janare - a cominciare da quelli presso il leggendario noce di Benevento - ma non si accenna quasi mai al 'cerchio delle streghe'. Il circiu di cui si parla nella favola irpina invece sembra avere una corrispondenza non solo semantica, ma anche culturale, con quanto evidenziato dagli studi sulle streghe europee: l'attinenza con il 'witches' circle' della tradizione anglosassone pare andare oltre la semplice suggestione. Un 'cerchio di streghe' che in questo specifico caso somiglia molto di più a un 'cerchio di fate', o in una declinazione ancora più pregnante a un 'fairy circle', per sottolineare meglio lo spalancarsi di orizzonti sterminati da esplorare in merito alle relazioni tra le cosiddette streghe e le fate. Le janare di Carife infatti - lontane anni luce dal truce stereotipo stregonesco - sono benevole fate del bosco che elargiscono ricchezza e abbondanza. La loro 'regina' sembra provenire da un reame fatato più che da una dimensione diabolica, la sua figura e i suoi straordinari poteri rigenerativi più che a una malvagia megera, la rendono simile alle benevole dee notturne: foriera di ricchezza come Richella o di abbondanza al pari di Abundia. Le adoratrici del demonio descritte da san Bernardino e da Piperno si dissolvono del tutto dal campo visivo, travolte da uno strato di credenze ben più antiche che, ribollendo al pari di magma, riaffiora dalle profondità.

Anche i nomi dei protagonisti del racconto sembrano provenire da epoche remote. Le janare sono chiamate in questo specifico caso anche shanare, forse una reminiscenza di un'antica e originaria forma del nome, e i licantropi vengono chiamati pempenali: il termine che descrive questi ultimi è un elemento che permette una serie di ulteriori osservazioni. Il licantropo, dal greco 'lykos' (lupo) e 'anthropos' (uomo), nel folklore campano è conosciuto con vari nomi: pempenale, pupunaro, pumpunaro, lupumenaro. Tutte declinazioni nate probabilmente nell'ambito del latino volgare di area meridionale come calchi dal greco 'lykanthropos'; Giacomo Devoto in "Avviamento all'etimologia italiana" per spiegare il significato di 'lupo mannaro' propone una forma ricostruita, vale a dire non attestata da fonti, e cioè *lupus hominarius ovvero 'lupo umano' o 'lupo mangiatore di uomini'. Esistono in realtà anche ipotesi circa i termini lupunarius o lupi homines ma, superando le dispute etimologiche, quello che va sottolineato, è che la presenza di uomini-lupo - nel caso specifico della favola di Carife - è un fattore che annoda l'intreccio narrativo alle radici più profonde delle popolazioni di queste terre. In lingua osca il lupo era chiamato hirpus, ne consegue che l'Irpinia era la 'terra dei lupi' per le popolazioni di lingua osca, allo stesso modo come lo era la confinante Lucania (dal greco lykos) per le popolazioni magnogreche stanziate più a sud. La tribù degli irpini - gli 'uomini lupo' o meglio gli 'uomini del lupo' - deve la sua fondazione, e il suo insediamento nell'area cui darà il nome, a un'arcaica pratica politica e sacrale diffusa tra le popolazioni italiche: il Ver Sacrum. Le Primavere Sacre erano migrazioni controllate che avevano spesso la funzione di risolvere tensioni sociali sorte in seguito a carestie, sovrappopolamento, spinte di altri gruppi tribali. Tutti i nati in una determinata primavera venivano consacrati a una divinità, di solito Mamers (Marte), e raggiunta la maggiore età si muovevano in massa al seguito di un animale che si sarebbe manifestato loro in circostanze prodigiose grazie all'intervento degli dei e li avrebbe guidati verso le nuove terre da colonizzare. Gli irpini, con tutta probabilità, erano in origine popolazioni di stirpe osco-sannitica spintesi verso sud dalle zone di origine, lungo la dorsale appenninica, nell'ambito di un Ver Sacrum al seguito di un lupo che nella loro lingua era appunto chiamato hirpus. I pempenali di Carife sono quindi un elemento che annoda l'apparato narrativo folklorico alle antiche origini tribali delle popolazioni irpine, sono una testimonianza del rapporto sacrale con l'arcaico totem che guidò il Ver Sacrum primordiale verso le montagne e le vallate dell'entroterra meridionale campano. La figura del lupo e le sue declinazioni antropomorfe affascinarono in modo profondo l'universo religioso degli antichi italici: non solo i sanniti, ma anche latini ed etruschi riservarono al lupo un ruolo di primo piano all'interno della sfera del sacro e del mitico. Celeberrima è la lupa del mito fondativo di Roma, ma le energie ambivalenti di questo animale erano centrali ad esempio anche nella festa dei Lupercali, che i romani mutuarono dalle popolazioni sabine, durante i quali alcuni sacerdoti chiamati luperci evocavano il fauno Luperco a protezione delle greggi dagli attacchi dei lupi e per propiziare la fertilità. Di lupi mannari ne parla anche Petronio nel "Satyricon" nel frammento LXII, nella cosiddetta Novella di Nicerote. Etruschi, Sabini, Latini e Falisci inoltre veneravano quale nume infero il dio Soranus, anche conosciuto come Sur (il nero) o Suri (del luogo nero), entità che nel tempo venne identificata e confusa con il Dis Pater e anche con Apollo. Centro del culto di Soranus era il Soratte, monte sacro a nord di Roma, sulle cui pendici officiavano il loro ministero gli hirpi sorani, ovvero i lupi di Soranus, sacerdoti-lupo noti nel mondo antico per le loro cerimonie estatiche durante le quali camminavano su carboni ardenti indossando pelli di lupo: i luperci della religione romana con tutta probabilità derivarono dagli hirpi di Soranus. Secondo Erodoto ogni anno i Neuri in determinati giorni si trasformavano in lupi, ciò fa ipotizzare l'esistenza di cerimonie religiose cicliche in cui venivano indossate maschere e pelli di lupo. Virgilio fornisce una suggestione interessante sui licantropi: secondo il sommo poeta alcuni esseri umani sono capaci di trasformarsi in lupo tramite l'utilizzo di piante medicinali magiche. Tutte queste credenze sono state probabilmente originate da un complesso mitico-religioso caratterizzato da divinità-lupo o da rituali che celebravano il ritorno dei morti.

Le janare-fate, già profondamente anomale rispetto alla figura della strega malvagia, sono quindi in compagnia di lupi mannari che nel caso irpino più che incarnare entità selvagge e violente rimandano direttamente alle antiche divinità teriomorfe delle religioni italiche e soprattutto all'arcaico totem sacro delle popolazioni irpine.

'Accrescere': il mito cereario

Il linguaggio della fiaba rappresenta per molti aspetti la chiave di lettura dell'allegoria contenuta nel racconto: la magia è nelle parole. A tal proposito è proprio grazie alla lingua della fiaba che può essere disvelato il mistero di cui è custode la trama. Dal punto divista narrativo ed allegorico, il centro esatto del racconto è rappresentato dal grano, o meglio ancora dal potere rigenerativo e magico attraverso il quale la 'regina' delle janare dona al contadino il segreto dell'abbondanza che rende infinito il cereale contenuto nel sacco. A questo punto la centralià simbolica del grano suggerisce chiaramente una relazione con i miti cereari legati ai misteri e ai culti officiati anticamente in onore della dea Cerere, che gli irpini di lingua osca chiamavano Kerres, divinità legata alla terra e ai raccolti. Secondo alcuni miti fu proprio Cerere, identificata in seguito con la greca Demetra, ad insegnare agli esseri umani il dominio dei segreti dell'agricoltura. Ma non è solo il grano che apre il campo a questa suggestione cerearia, ancora una volta è il linguaggio della fiaba che fornisce elementi che rafforzano l'ipotesi. Il centro del racconto è rappresentato quindi dal grano, ma dal punto di vista semantico e magico la centralità di questa leggenda si fonda sul verbo 'accrescere' utilizzato sia dal contadino nel momento in cui supera la paura e si unisce al cerchio, sia dalla 'regina' delle janare che di riflesso al gesto dell'uomo 'accresce' all'infinito il contenuto del suo sacco. Lo schema magico su cui si impernia il racconto è descritto proprio dall'accrescere, ovvero dal potere naturale che è anche la radice etimologica del nome della dea Cerere. Secondo le tesi dello storico tradizionalista Renato Del Ponte contenute nel suo "Dei e miti italici" il nome della dea Cerere deriva dalla radice indoeuropea *ker che significa 'crescere', 'accrescere' o meglio 'colei che ha in se il principio della crescita'. Sotto questa prospettiva, non solo va sottolineata la funzione centrale dei cereali all'interno del racconto, ma soprattutto il riferimento al potere di 'accrescimento' che risiede anche nella radice del nome della dea: fattori che suggeriscono l'originarsi della fiaba da un antico mito cereario legato al ciclo dei campi e allo spirito del grano.

La scena del cerchio, sulla scorta di queste considerazioni su shanare, pempenali e 'accrescimento', si allontana sempre di più dalle descrizioni dei sabba stregoneschi per andare a collocarsi in un ambito che sembra molto più in relazione con il sacro e con i culti misterici attraverso i quali si accede alla dimensione senza tempo del mito. Non bisogna dimenticare infatti che in onore di Cerere-Demetra venivano celebrati riti misterici - come nel caso dei famosi Misteri Eleusini - all'interno dei quali gli iniziati avevano la possibilità di compartecipare alle dimensioni divine. L'accesso ai mysteria avveniva attraverso tecniche estatiche e probabilmente attraverso l'utilizzo di sostanze psicotrope con cui veniva preparato il Ciceone: la bevanda sacra che ad Eleusi consentiva l'accesso alle dimensioni imperscrutabili. Nel racconto di Carife non si fa cenno ad agenti sacri quali il Ciceone greco, ma è singolare notare come nelle prime parti della fiaba la paura del contadino venga innescata dalla vista di janare e licantropi impegnati nella danza. Questi sono descritti come presi da estasi, rapiti in danze convulse e con i volti segnati da smorfie. In latino questa loro condizione sarebbe stata descritta con il verbo 'lympho' (linfare) che aveva il significato di 'impazzire' o meglio ancora di 'essere in uno stato di estasi'. Forma verbale da cui deriva anche il sostantivo 'ninpholectus' ovvero 'rapito dalle ninfe', termine che in passato non aveva una connotazione esclusivamente di carattere erotico ma indicava anche comportamenti assimilabili agli stati di trance. L'estasi era quindi associata al rapimento da parte delle ninfe - che gli antichi irpini sicuramente conoscevano con il nome osco di diumpais - entità soprannaturali della religione greca e in seguito romana che rappresentavano le potenze divine dei boschi, degli alberi, ma soprattutto dell'acqua e delle sorgenti. Le ninfe dell'antichità - come è noto - hanno di fatto una forte attinenza con le fate che popoleranno in seguito i racconti folklorici dal medioevo in poi e le shanare di Carife, come già sottolineato, più che streghe sembrano incarnare gli attributi che di solito descrivono le fate.

Mefite - Xoanon in legno - da Rocca San Felice
Mefite - Xoanon in legno - da Rocca San Felice

L'ombra di Mefite

Il cerchio estatico di janare e licantropi, e il collegamento semantico tra estasi e ninfe, nel contesto della fiaba irpina - oltre all'allusione all'antico mito cereario legato all'accrescimento del grano e alla dea Cerere - non possono non suggerire delle affinità con espressioni cultuali legate alla figura della dea italica Mefite, sicuramente molto venerata in zona grazie alla presenza del famoso santuario della vicinissima Rocca San Felice risalente al VII secolo aev. La dea Mefite era una divinità italica deputata alle acque, alla fecondità femminile e, al pari di Cerere, alla fertilità dei campi. In area irpina il suo culto è ampiamente attestato soprattutto per la presenza del santuario della valle d'Ansanto che dista pochissimo da Carife; un piccolo lago di origine vulcanica che secondo Virgilio (Eneide, Liber VII) era una delle porte di accesso agli inferi. Il nome della dea è di origine osca e secondo alcune ipotesi il suo significato sarebbe 'colei che sta nel mezzo' con riferimento al suo ruolo di intermediaria tra vita e morte, ma ancora una volta è Giacomo Devoto in "Antichi italici" a suggerire un significato etimologico che ben si attaglia alla dimensione estatica che si intravede nella favola di Carife. Secondo le sue tesi il nome Mefitis deriverebbe dalla locuzione osca 'medhu-io' che significa 'colei che si inebria', tracciando un collegamento diretto con la dea sabina Mefula, in origine dea dell'ebbrezza e della vertigine. La danza estatica e misterica cui partecipa il contadino durante la sua traversata del bosco, la magia della crescita e della rigenerazione, l'allusione alla fertilità infinita della terra, pongono la fiaba di Carife in forte corrispondenza sia con il paradigma mitico e sacro legato alla dea Cerere, sia con quello espresso dalla figura di Mefite: dea dell'attraversamento dimensionale, della trance e del passaggio tra i mondi.

Conclusioni

La breve favola contadina di Carife custodisce una vasta serie di elementi che pescano in uno strato mitico e sacro antichissimo. Al suo interno infatti viene espresso il consueto paradigma delle tradizioni sociali, culturali e mitopoietiche della civiltà contadina quali l'abbondanza, lo slancio verso migliori condizioni di vita, il desiderio di alleviare i costanti sforzi che la vita rurale imponeva.

Ma è presente nella trama narrativa anche una costante e profonda allusione al piano mitico e sacro, a una iniziazione, a un insegnamento misterico: solo superando le paure si possono compenetrare i misteri della natura, solo all'interno dei mysteria è possibile contemplarne l'essenza.

Le janare di Carife sono estremamente dissimili dall'immagine negativa consolidatasi intorno alle streghe campane, l'intera narrazione tramanda degli elementi - quali la danza in cerchio accompagnata dalla musica e l'azione benevola della 'regina' - che sono del tutto avulsi dallo stereotipo negativo fatto di rapimenti di fanciulli e di colture mandate in rovina. Il racconto è quindi una summa sia della tradizione contadina sia di quella antica legata ai riti di passaggio e ai culti cosmico-agrari. A Carife le shanare sono fate e i pempeali un'epifania di antiche divinità teriomorfe; il fulcro magico del racconto è una chiara allegoria dell'antico mistero dell'infinito ciclo di morte e rinascita dei cereali che solo in seguito alla sepoltura dei semi nel terreno ritorneranno alla vita sotto forma di spighe.

Sono note le molteplici affinità tra racconti di fate e leggende stregonesche in tutta Europa: entrambi sembrano riaffiorare da un comune sostrato mitico come ha dettagliatamente osservato Carlo Ginzburg nei suoi studi. Nella fiaba di Carife queste affinità appaiono con estrema chiarezza senza dover ricorrere a decifrazioni o traduzioni. Le shanare del racconto agiscono allo stesso modo delle fate delle tradizioni del nord Europa: danzano sfrenate in cerchio nel bosco, aprono agli esseri umani le porte dei loro reami fatati, sono custodi di antichi segreti, elargiscono ricchezza grazie a poteri benevoli. Il racconto irpino fornisce la possibilità di indagare uno strato culturale che altrove giace nascosto dallo stereotipo inquisitorio e folklorico, andando a rafforzare il già vasto campo delle ricerche sulle relazioni, all'interno della tradizione popolare, tra leggende stregonesche e Popolo Fatato. Le Shanare e i pempenali di Carife rappresentano un'isola che è riuscita a non farsi travolgere dalla violenta e lunghissima ondata di demonizzazione delle antiche credenze contadine, un fossile vivo proveniente da uno strato culturale arcaico, un elemento prezioso per una comprensione più profonda di quanto giace alla base della tradizione stregonesca campana ed europea.


Massimiliano Palmesano



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