Quando Bacco donò il vino a Falerno: l’antico mito dell’ospitalità rivive nei riti di marzo dell'area aurunca

16.05.2020

Silio Italico nelle Puniche racconta un antico mito secondo cui Bacco, travestito da viandante, donò al pastore Falerno le viti dell'omonimo vino come segno di riconoscenza per la sua ospitalità. Questo antico mito rivive, sotto molti aspetti, nel rito dei fuochi di San Giuseppe che si tiene il 18 e 19 marzo nel centro casertano di Cascano e in altri paesi della zona Aurunca quali Valogno, Marzuli e Corbara.

Gli esseri umani di ogni tempo e luogo, hanno costruito forme differenziate di ritualità per ricordare e celebrare antichi miti fondativi e ancestrali, il rito rompe la linearità del tempo e trasporta chi lo pratica in una dimensione a-temporale e a-spaziale, la ritualità è la formula religiosa atta a far rivivere il mito, strappandolo dal suo tempo ancestrale per riproporlo ciclicamente a livello comunitario. Nella zona di produzione del vino Falerno, in provincia di Caserta, nel territorio del Massico, ogni anno il 18 e 19 marzo si svolge un particolare rito dedicato a San Giuseppe, un rito che al di la della "buccia" cristiana, con tutta probabilità e l'eco degradata di un antico mito dell'ospitalità, infatti i portoni delle antiche corti in questo giorno restano aperti, grossi falò illuminano a giorno i vicoli del centro storico e le persone aprono le proprie cucine, offrendo a chi partecipa vino e cibo locale. Certo un rito e una festa ormai da secoli del tutto radicati nella tradizione cristiana e legati alla figura di San Giuseppe, ma per meglio inquadrare la matrice culturale e religiosa che si trova alla base di questa particolare manifestazione della spiritualità contadina, bisogna molto probabilmente andare molto indietro nel tempo. Esiste un mito infatti, tramandato da Silio Italico nelle Puniche, che contiene tanti elementi che danno la possibilità di ipotizzare una derivazione diretta dei falò di San Giuseppe dal mito in questione. Silio Italico, nel VII libro delle Puniche infatti scriveva:


"Sebbene debba divagare dal mio grande tema, tuttavia, o Bacco, non posso qui sorvolare sui tuoi benefici. Devo parlare del dio che diede agli uomini la divina bevanda, per la quale le viti cariche di nettare non danno alcun nome che possa essere anteposto ai tini falerni. Il vecchio Falerno, in questo tempo felice nel quale non si conoscevano le spade, lavorava le pendici del monte Massico. Allora i campi erano brulli e nessuna vite protendeva ancora un'ombra verde sui grappoli. Abituati a estinguere la loro sete all'acqua pura di una fonte, gli uomini non sapevano ancora come rendere le loro bevande più gradevoli attraverso il succo di Bacco che libera dagli affanni. Ma quando Bacco si trovò nel corso del suo viaggio sulla costa di Calpe al tramonto, il percorso e l'ora fortunati lo condussero qui come ospite. E il dio non ebbe remore a entrare nella casetta e a porsi sotto il modesto tetto. La porta annerita dal fumo diede il benvenuto all'ospite. Il cibo fu servito di fronte al focolare, come si usava fare in modo semplice a quel tempo. Il padrone di casa, felice, ignorava di avere ospite un dio, ma, come erano soliti fare i suoi antenati, andava di qua e di là con grande zelo sfruttando le forze che la vecchiaia gli aveva lasciato, fino a quando non ebbe preparato il banchetto festoso: la frutta in ceste ben pulite e le primizie ancora umide di rugiada che rapido raccolse nel suo giardino ben irrigato. Poi adornò le appetitose vivande con latte e favi di miele e portò i doni di Cerere su un tavolo che mai sangue aveva macchiato. Da ogni piatto per prima cosa toglieva una parte da dedicare alla dea Vesta, che provvedeva a gettare al centro della fiamma. Contento del servizio offerto dal vecchio uomo, Bacco decise che il suo succo non poteva mancare su quella mensa. Improvvisamente si verificò un miracolo. Per ricompensare il povero uomo della sua ospitalità, le coppe di legno di faggio si riempirono di succo di uva, nel modesto secchio usato per la mungitura cominciò a scorrere vino rosso e il dolce succo ricavato dall'uva profumata riempì i crateri ricavati dal legno di quercia. «Prendi il mio dono», disse Bacco. «Ora ancora non ti è noto ma da ora in poi prenderà il nome dai doni del vignaiolo Falerno». Il dio non si nascose ulteriormente. Perciò l'edera cinse la sua fronte splendente di luce purpurea, le sue chiome si adagiarono sulle spalle, un boccale stava appeso alla sua mano destra e viti nascevano dal suo tirso verde ammantando il tavolo della festa con le foglie di Nisa. O Falerno, non fu facile resistere al piacevole sapore. Dopo che bevesti più volte coppe di vino, la tua lingua balbettante e i tuoi piedi barcollanti risvegliarono l'allegria. E con la testa sconvolta tentasti di ringraziare e pregare il dio della degna ricompensa con parole appena comprensibili, fino a quando il Sonno non si impadronì dei riluttanti occhi, il Sonno portato come tuo compagno, o Bacco. Quando le unghie dei cavalli di Febo dispersero la rugiada di Fetonte, tutto il monte Massico divenne verde ricoperto dai vigneti, ammirato per le viti e i grappoli che brillavano alla luce del sole. La fama della montagna crebbe e da quel giorno il fertile Tmolo e il nettare di Ariusia e il vino forte di Metimna diedero tutti la precedenza ai tini di Falerno" (Le guerre puniche, VII, 162-21).

La superba poetica di Silio Italico ci fornisce in questo passo una serie di elementi che possono essere utili ad analizzare sotto una nuova griglia interpretativa l'attuale rito di San Giuseppe. Il mito si riferisce a quella che può essere considerata a tutti gli effetti un'Età dell'Oro, un'epoca remotissima in cui regnava la pace ("un tempo felice in cui non si conoscevano spade"), un'epoca in cui non veniva ancora mangiata la carne ("un tavolo che mai sangue aveva macchiato") e dove i contadini italici si nutrivano dei soli frutti della terra, un racconto che già dai primi elementi, suggerisce una radice remota che si perde nella notte dei tempi. Bacco, il Dioniso dei greci, veniva da est, come le popolazioni indoeuropee che migrarono nella penisola italica millenni fa, e quasi sicuramente anche la vite è giunta fino a noi grazie a quelle antiche migrazioni. Il Bacco degli italici, altro non era che la forma più selvaggia e orgiastica del Dioniso greco, nella penisola ellenica infatti il termine "bakkòs" indicava la trasformazione estatica e primordiale del dio durante i Misteri Eleusini, gli italici presero come loro divinità la sfumatura più sfrenata del nume proveniente dalla Grecia.

Nel mondo classico, greco e romano, l'ospitalità era sacra e regolata da precise prescrizioni rituali, che i greci chiamavano "xenia", queste indicavano i doveri dell'ospitato ma soprattutto dell'ospitante. Nel mito narrato da Silio Italico, il vecchio Falerno si attiene a quelle particolari prescrizioni: non chiede il nome del viandante che ospita, questo era necessario perché per gli antichi sotto le vesti del viandante che chiedeva ospitalità poteva sempre nascondersi un dio, proprio come nel caso di questo mito, e mancare di rispetto a una divinità poteva attirare sulla casa e chi vi abitava le sue ire, il nome dell'ospitato poteva essere chiesto solo nel momento in cui questi lo concedeva. Falerno ricava da ogni pietanza che ha portato a tavola una parte da immolare alla dea Vesta, protettrice del focolare domestico, in segno di devozione, la sua rettitudine "commuove" il dio che agisce un altro elemento fondamentale della "xenia" e cioè il dono verso chi ospitava. Il dono del vino avviene in una cornice dal forte profilo magico, le sembianze del viandante sconosciuto cambiano improvvisamente assumendo tutti gli attributi tipici di Bacco: l'edera cinge la sua testa, nella sua mano destra compare una coppa e dal suo tirso verde cominciano a svilupparsi tralicci di vite che avvolgono il tavolo. A questo punto Falerno con la "testa sconvolta" cerca di ringraziare il dio finché non si addormenta, al suo risveglio sarà di nuovo da solo ma dalla porta della sua capanna potrà ammirare i colli del Massico completamente ammantati da viti. In quella che può essere letta come una vera e propria esperienza estatica del vecchio Falerno, il dio gli dona il vino, le viti, ma anche, su un piano puramente magico di infusione spirituale, il sapere necessario per la coltivazione della pianta e per la trasformazione dei suoi frutti nel nettare che diventerà il rinomato Falerno. E' utile notare anche come la cultura del vino divenne talmente importante e di grande qualità per le popolazioni del Massico, che uno strumento agricolo, nato per il taglio delle viti, prese il nome proprio da queste popolazioni: infatti la roncola che ancora oggi viene usata nelle campagne per svariati lavori, deve il suo nome odierno alla denominazione latina, questa infatti nei tempi antichi era chiama "falx aurunca" (falce degli aurunci), dall'etnonimo "aurunci", gli antichi abitanti della catena del Massico.

La narrazione di Silio Italico si riferisce chiaramente a un mito, ma ogni mito, racchiude nel suo profondo un avvenimento storicamente reale, in questo caso ci si riferisce chiaramente all'arrivo della coltura della vite, ma ancor di più all'acquisizione dei saperi per la trasformazione dei suoi frutti, pratica senza dubbio millenaria in tutta la zona del Massico. 

Ipotizzare una linea di connessione diretta tra questo antico mito e i rituali legati alle celebrazioni in onore di San Giuseppe nella zona aurunca non è un esercizio semplice, infatti gli studi che si sono occupati di tali riti si concentrano soprattutto su Cascano, su tutti vanno citati quelli dello storico Fioravanti Passaretti che ha svolto ricerche dall'alto valore documentale. I dati documentali non si spingono mai oltre le testimonianze dei registri parrocchiali che sono molto recenti e partono cioè dal 1800, forse a causa della rivolta di Cascano del 1799 in cui con tutta probabilità vennero dati alle fiamme anche i documenti conservati all'interno della locale parrocchia, eliminando ogni tipo di fonte scritta. Ma se ci affidiamo a una comparazione morfologica dei due avvenimenti, mito di Falerno e riti aurunci di marzo, possiamo portare a galla una serie di innegabili similitudini.

I riti dell'area aurunca vengono inseriti dalla maggioranza degli studiosi che se ne sono occupati in quei cicli di riti contadini legati alla rinascita, manifestazioni che con l'avvento del cristianesimo sono stati soppiantati da festività religiose o anche di carattere popolare come il Carnevale, che per tanti aspetti erano la continuazione (forse troppo azzardato riferirsi a sincretizzazione) delle antiche feste rurali legate al rinnovamento, alla vita che prevale sulla morte, alla nascita, a nuovi cicli e a nuovi inizi, feste che si collocano tutte nell'arco di tempo che va dall'Epifania alla Pasqua. Il riti di Cascano e della zona aurunca non solo sono collocati cronologicamente in questo periodo di tempo, ma come tutti i riti contadini dello stesso tipo, celebrano un inizio, rievocano un inizio, quello della primavera, che è dal punto di vista psicologico un elemento affine a quanto tramandato da Silio Italico nel mito di Falerno e Bacco. Il mito  antico, dal punto di vista puramente storico, altro non narra che l'inizio di un ciclo e cioè quello della coltivazione della vite e della produzione del vino, elemento divenuto importantissimo nella cultura delle popolazioni aurunche. Il rito di Cascano, quello che forse conserva meglio questa caratteristica, si manifesta e si esprime come una vera e propria sacralizzazione e ritualizzazione dell'ospitalità: ogni antico portone viene aperto per lasciare libero accesso alle ampie corti interne dove vino Falerno e le caratteristiche "cuccetelle" (piccoli pani rotondi) e "menestelle" (una minestra di fagioli e ceci) vengono distribuiti gratuitamente ai tantissimi che accorrono da tanti centri della provincia. La festa di Cascano è una grande celebrazione ritualizzata dell'accoglienza dell'altro, durante la festa di San Giuseppe viene rinnovata ciclicamente, all'interno di uno spazio sacro, la stessa ospitalità che contraddistingue queste genti fin dai mitici tempi (senza tempo) del vecchio Falerno, che aprì le porte della sua capanna al dio Bacco e gli offrì i migliori frutti delle sue terre. C'è soprattutto questo nei riti di Cascano che ancora oggi vengono celebrati e cioè la sacralizzazione, attraverso un rituale pubblico e includente, dell'ospitalità e delle sue radici più antiche negli usi delle popolazioni aurunche.

I riti aurunci inoltre hanno un'altra caratteristica fondamentale e cioè quella dei "fucaracci", dei grossi falò di forma piramidale, che vengono allestiti tra i caratteristici vicoli dei centri storici attorno ai quali si balla, si mangia e si beve fino a notte fonda. Questi fuochi, oltre a poter essere assimilati alle tantissime feste del fuoco che in tutta Europa segnano il passaggio dalle tenebre del periodo invernale alla luce di quello primaverile, hanno una importante caratteristica: al loro centro veniva (e viene) installato un grosso ramo di alloro secco, che stando ai racconti di chi prepara i falò, raggiunto dalle fiamme emette un fragoroso scricchiolio, quasi come dei fuochi pirotecnici naturali, che annuncia che il "fucaraccio" si è definitivamente acceso. L'alloro, come tramandano tanti autori tra cui Plinio e Teofrasto, fin dai tempi antichi veniva utilizzato per accendere fuochi e per creare esche incendiarie data la sua alta infiammabilità, ma era anche l'attributo divino di Apollo dio del Sole, quindi del fuoco senza fine. Ma questa pianta era sacra anche ad altre divinità tra cui Vesta, nume che incarna il fuoco domestico, le cui sacerdotesse, le vestali, erano cinte da una corona di alloro: al centro dei "fucaracci" ancora oggi c'è una delle piante sacre anche a Vesta, la stessa divinità a cui Falerno, secondo il mito, aveva offerto la prima parte dei cibi che aveva messo sulla tavola, gettandoli al centro del fuoco. L'alloro al centro dei falò e le offerte a Vesta al centro del fuoco da parte di Falerno, richiamano entrambi l'archetipo del centro da cui irraggiano infiniti inizi, connotazione molto più profonda rispetto alla semplice, seppur pregnante, importanza che il fuoco assume sia nei riti aurunci sia nel mito di Silio Italico.

Tutti questi elementi di comparazione ci consegnano senza ombra di dubbio delle evidenti affinità sacrali tra i modi attraverso cui si esprimono gli odierni rituali aurunci e l'antica mitizzazione del rapporto tra queste popolazioni e la cultura del vino. Affinità che sono di carattere morfologico e materiale, ma anche e soprattutto di carattere psicologico: il vero collegamento spirituale, quindi mitico e rituale, risiede nella sacralizzazione dell'ospitalità, costume che aveva fatto ottenere agli aurunci il dono del vino che ancora oggi, a millenni di distanza, riveste un ruolo centrale dal punto di vista alimentare, sociale ed economico per queste popolazioni.


Massimiliano Palmesano


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