Il "Papàgnulo", l'oppio nella cultura popolare del Sud

07.11.2019

Martella e Nicola si sono n'zurati (1) due anni fa e vivono nel crogiuolo di bassi umidi e bui del centro storico; Nicola non ha madre nè padre ed è aiuto vaticale (carrettiere), Martella viene da fuori e anche lei non ha nessuno in paese, dà il suo contributo all'economia familiare facendo la "bracciale" nei campi e precisamente scava il cannulo (2) giù al Pantano, una immensa zona paludosa dove si coltiva la canapa. Questa mattina si sono alzati entrambe prima della luce dell'alba, è ancora buio e tutti e due devono uscire di casa, Nicola deve effettuare un trasporto di lupini e biada fino in Molise, Martella come tutte le mattine deve scendere a piedi fino al Pantano con le altre donne, scandendo il percorso dal paese alle campagne con i canti. Ma prima di uscire Martella, che ha gia preparato un pasto frugale per lei e il marito, si avvicina al caminetto, prende un pezzo di lino annodato a formare una pallina, e tra le pignatte di creta poggiate sul bordo in pietra ne prende una piccola, ci inzuppa ben bene la rudimentale pallina di lino e torna nella camera da letto. Qui c'è una piccola culla di legno, dentro un bimbo, è Salvatore, loro figlio, grazie al "papàgnulo" preparato da Martella la sera prima, ha dormito beatamente tutta la notte lasciando riposare marito e moglie. La mamma lo accarezza, gli da un bacio e gli mette in bocca il piccolo ciucciotto di lino imbevuto di papàgnulo. Solo in questo modo potrà portarselo con lei in campagna per non lasciarlo da solo a casa, lo avvolgerà in un panno e se lo legherà alla schiena, per poi lasciarlo a riposare al fresco di una quercia o di un pioppo.

La scena raccontata non deve differire molto da quella che era la routine quotidiana di una famiglia delle classi subalterne contadine nell'entroterra campano fino a quasi tutta la prima metà del '900: bassi fatiscenti che sono insieme casa e stalla, povertà, lavori estenuanti nei campi, lunghi viaggi lontano da casa e il papàgnulo per i bambini (e non solo per loro). Il papàgnulo (o nelle sue varie denominazioni di "papagno", "papagniello", "papangulo", che cambiano da zona a zona in un area che va dal basso Abbruzzo alla Calabria) è un decotto, molto meno spesso un infuso, di capsule di papavero mischiate ad altri ingredienti, conosciuto nella cultura contadina da tempi remoti ed utilizzato come sonnifero e calmante per i bambini, ma conosciuto e usato per le sue proprietà mediche, narcotiche e antidolorifiche da tutti. Bisogna innanzitutto fare una precisazione di carattere botanico, e cioè che il papavero utilizzato per la preparazione del papàgnulo, non è il diffusissimo papavero rosolaccio che possiamo incontrare nei campi di grano, bensì il papaver somniferum o papavero da oppio. Infatti quando pensiamo al papaver somniferum, il cosidetto papavero da oppio, siamo spesso portati a immaginare origini esotiche, per molto tempo si è ritenuto che il papavero da oppio fosse giunto in Europa dall'Oriente, invece "il papavero da oppio fu ricavato per selezione da una pianta selvatica di papavero, il papaver setigerum, che cresce nel Mediterraneo occidentale. Il processo di selezione che porto' alla formazione del vero e proprio papavero da oppio e' avvenuto durante la fase neolitica nel VI millennio a.C. in una qualche regione del mediterraneo occidentale. Dai territori di origine questa droga si diffuse velocemente, raggiungendo l'arco alpino e l'Europa centrale verso il V millennio a.C., e nel III millennio aveva gia' raggiunto l'Asia centrale". (3). Alcuni studi pubblicati di recente pare testimonino la presenza di semi di papavero in alcuni siti archeologici palafitticoli del neolitico nell'arco alpino, "gli scavi archeologici dei siti palafitticoli portarono alla luce una significativa quantità di semi e di capsule di papavero da oppio. Con datazioni così antiche che l'ipotesi di un'origine orientale dell'oppio fu definitivamente abbandonata dagli archeobotanici. Gli scavi moderni dell'arco alpino continuano a evidenziare una forte presenza del papavero da oppio in quei contesti neolitici. Ad esempio, nel sito di Schicht 3, vicino a Zurigo e datato al 3200 a.C., sono venuti alla luce oltre 120.000 elementi vegetali riconducibili alla specie coltivata di Papaver somniferum. Da questi dati, gli archeologi svizzeri sospettarono un'origine alpina del papavero da oppio". (4) Nonostante però l'accertata provenienza mediterranea, o proprio italiana, del papavero da oppio, non troviamo racconti mitici sulla sua nascita, "a discapito della grande diffusione ed impiego del papavero da oppio come potente medicinale e come droga presso le piu' disparate popolazioni moderne e del passato, i racconti mitologici e folclorici tematizzati su questo vegetale sono sorprendentemente scarsi. Non ci sono pervenuti ad esempio, miti d'origine del papavero da oppio attraverso la vasta letteratura greco-romana, come ci si sarebbe dovuti attendere considerando le origini mediterranee di questa pianta" (5). 

Nonostante questa mancanza nei racconti e nei miti italici, la presenza del papavero da oppio in numerosi siti archeologici, e le testimonianze raccolte sul campo, ci consegnano una diffusione sia selvatica che in coltivazione e una conoscenza della pianta molto diffusa. Oltre ai richiami che possiamo trovare in alcuni miti, è interessante segnalare numerosi riferimenti, sia su vasi che in forma di stele, al papavero da oppio nella cultura artistica dei Dauni, la Daunia era la parte settentrionale della Puglia, cultura in cui sono raffigurate sovente capsule d'oppio (6). Da sempre associato al mondo ctonio e del sonno eterno, ma anche all'abbondanza, grazie ai numerosi semi contenuti nella capsula, il papavero è presente nei miti di Demetra e Proserpina (quest'ultima quando fu rapita e portata nell'Ade, pare stesse raccogliendo papaveri in un campo) e nel culto di Cerere, in cui il papavero adorna il capo della dea insieme al grano. Numerose sono inoltre le congetture che vedono nelle mani della Dea Matuta una capsula d'oppio piuttosto che un melograno. Al di là dei risvolti storici e mitici, è attestata e diffusa la pratica della preparazione del papàgnulo in numerose zone d'Italia, in particolare al meridione, dove la sua preparazione, che puó variare da zona a zona, è presente in tutte le tradizioni contadine. Dagli studi effettuati sul campo è stato possibile ricostruire la coltivazione del papavero in casa e nei giardini almeno fino agli anni '30 del '900, numerose donne intervistate ricordano nitidamente i bei fiori rosa che lasciavano il posto a grosse capsule una volta caduti i petali; insomma non solo se ne conoscevano le proprietà mediche, ma lo stesso veniva anche coltivato in casa, sicura eco di usanze e pratiche antiche. Questo per quel che riguarda la coltivazione vera e propria, ma se invece consideriamo la raccolta di quello selvatico, questa è attestata ancora più avanti nel tempo e cioè, soprattutto in alcune zone, almeno fino alla fine degli anni '60 del 900 (7). Una diffusione profonda quindi nella cultura e nella medicina contadina del meridione, nonostante il devastante passaggio del'900, che oltre al proibizionismo, ha dato un colpo letale alle specie autoctone a causa del massiccio utilizzo in agricoltura di anticrittogamici e diserbanti. Ad oggi non ci sono notizie sulla presenza spontanea della pianta, ma non si esclude che possano essersi formate delle sacche di resistenza biologica e che quindi in alcune zone sia ancora possibile ritrovarla. Numerose sono le ricette per preparare il papàgnulo, quasi tutte accompagnate da una sorta di ritualità pre-magica che regola le fasi della preparazione della bevanda. In linea di massima il metodo di preparazione più diffuso è la decozione per 15/30 minuti di 4/5 capsule di papavero in acqua, in aggiunta troviamo spesso fichi secchi (con il compito di dolcificante), 3 foglie di alloro, a volte fiori di camomilla. Non solo, in alcuni casi, le ricette aggiungevano a quanto gia elencato tra i 5 e i 15 semi di stramonio (datura stramonium), versione della ricetta che richiama scopi magici e "stregoneschi", essendo lo stramonio una delle solanacee piu utilizzate dalla stregoneria medievale e moderna europea. Lo stramonio ha infatti effetti sia sedativi e narcotici che onirici, non deve stupirci quindi la sua presenza all'interno di una bevanda che, seppur diffusissima, affondava le sue radici nel mondo arcaico, dove il confine tra scienza medica e magia era labile se non addirittura inesistente. Troviamo infatti il papavero anche in numerosi preparati utilizzati dalle streghe, soprattutto in unguenti psicotropi utilizzati per il volo magico o per raggiungere il sabba. Tra le varie ricette troviamo il papavero sonnifero insieme allo stramonio, il giusquiamo, la belladonna, il sedano, le fave e una "ombra" di aconito in una "Tisana per ungersi e sognare eventi straordinari" in cui si legge: "ne farete una mistura oleosa con la quale vi ungerete tempie e le ascelle. Sognerete voli selvaggi, approdi a feste scatenate che si trasformeranno in un crescendo di sessualità", l'antropologo Puckert e un suo amico dichiararono di aver provato l'unguento e di aver avuto visioni simili ad alcune opere di Geronimo Bosch come "Il giardino delle delizie". (8) Oltre all'impiego contadino come narcotico e sonnifero per i bambini è riscontrabile anche una reminiscenza di carattere magico cultuale proprio grazie alla presenza nella sua preparazione dello stramonio, da sempre pianta associata al mondo magico e alle esperienze estatiche. 

In ogni caso il papàgnulo non veniva preparato solo per essere somministrato ai bambini, nè era una tradizioni delle sole classi subalterne, anzi la sua diffusione era trasversale ai vari strati sociali. Si racconta che una donna, il cui marito era costretto a letto per una dolorosa e sconosciuta malattia, cercasse di alleviare i dolori di quest'ultimo dandogli infusi di papavero quotidianamente. In questo modo l'uomo riusciva a sopportare il dolore nonostante fosse costretto a letto. Caso volle che la morte sopraggiunse prima per la moglie e non avendo più chi gli preparava il papàgnulo, l'uomo dopo qualche settimana (e quasi sicuramente dopo aver superato una crisi di astinenza) si riprese e riuscì anche ad alzarsi dal letto. La malattia, passata da chi sa quanto tempo, aveva lasciato il posto alla dipendenza da oppio a causa delle assunzioni quotidiane di ingenti dosi di papàgnulo. Le scoperte archeologiche, le tracce nei miti antichi, ma soprattutto la sua diffusione, coltivata fino a inizio '900 e spontanea fino alla seconda metà dello stesso secolo, la pianta è protagonista di una pratica diffusissima tra gli strati sociali contadini del meridione, intere generazioni di nostri avi, fino ai nostri nonni e ai nostri genitori sono cresciuti con bevande a base di alcaloidi oppiacei, gli stessi da cui è stata sintetizzata la morfina e l'eroina. Una pratica antica e profondamente connessa con il mito del sonno eterno e quindi con il mondo dei morti e con le capacità di matrice sciamanica dell'uomo di entrare in contatto con esso. Intere generazioni hanno conosciuto il potere dell'oppio fin dalla tenera età, dormendo sonni profondissimi in attesa del ritorno dei genitori dai campi!

Massimiliano Palmesano 

NOTE

  1. Dal latino > ducere in uxorem , condurre in sposa, per le differenze tra "uxor" e "maritus" si rimanda a Emile Benveniste , "Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee" volume primo
  2. La canapa è stata coltivata a scopo industriale in tutta la provincia di Caserta, fino a inizio '900, per la produzione di tessuti e corde
  3. Samorini, Mitologia delle piante inebrianti, Ed Studio Tesi; p. 61
  4. Samorini, Origini italiane dell'Oppio, Erboristeria Domani, n* 396 maggio giugno 2016
  5. Samorini, Mitologia delle piante inebrianti, ibidem
  6. Samorini, Il culto dell'oppio tra i dauni della puglia, samorini.it
  7. Le interviste che hanno portato a conoscenza sia della coltivazione che della raccolta di quello spontaneo sono state fatte nella zona dell'agro caleno, presso Capua
  8. Enrico Malizia, Ricettario delle Streghe, Ed Mediterranee

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